LOME’, Togo – Una delle maggiori missioni dell’Onu è ormai prossima all’implosione. Sembra questo l’attuale scenario dopo che diversi Paesi africani e occidentali hanno annunciato il loro ritiro dalla Missione Onu in Mali (Minusma)
. La Germania è l’ultima a confermarlo rispetto ai suoi militari presenti sul territorio maliano dal 2013. «I nostri 1,200 caschi blu lasceranno il Mali tra l’estate del 2023 e maggio 2024 – ha detto alla stampa il ministro della difesa tedesco, Christine Lambrecht –. La partenza del contingente sarà ordinata».
L’Onu, che ha espresso «preoccupazione » per la situazione, ha fatto appello alla comunità internazionale affinché non dimentichi quanto sia importante il supporto militare e logistico per il popolo maliano vittima dell’ondata jihadista da quasi dieci anni. « Non abbiamo ancora ricevuto la notifica ufficiale del ritiro tedesco – ha affermato Farhan Haq, vice portavoce dell’Onu –. La missione sta valutando l’impatto di questi ritiri e stiamo discutendo con alcuni Paesi per colmare eventuali lacune». Nelle ultime settimane, Regno Unito, Costa d’Avorio, Egitto e Benin hanno annunciato il loro ritiro, permanente o temporaneo, dalla Minusma, mentre altri Stati hanno fatto annunci simili. « La scelta della Germania e di altri Paesi europei può significare una vittoria per Vladimir Putin e un relativo aggravamento della minaccia jihadista – afferma ad Avvenire Theodore Murphy, direttore del dipartimento Africa del Consiglio europeo sulle relazioni internazionali (Ecfr) –, ma il coinvolgimento militare dell’Unione Europea andrebbe comunque rivoluzionato perché da anni non sta dando i risultati sperati».
Il colonnello Assimi Goita, presidente ad interim del Mali, si sta appoggiando all’aiuto dei mercenari russi della società Wagner legata al Cremlino, aumentando l’isolamento del Paese. I soldati francesi della missione Barkhane avevano già lasciato il territorio maliano dopo che la relazione tra Bamako, la capitale del Mali, e Parigi si è rapidamente deteriorata dall’anno scorso, inoltre Parigi sta valutando la possibilità di lasciare militarmente anche il vicino Burkina Faso, alla mercé dell’estremismo islamico dal 2015, mantenendo i suoi soldati in Niger (dove estrarre il sempre indispensabile uranio) e in Ciad. Dall’Atlantico al Golfo di Aden, dove il jihadismo si è espanso ormai da tempo anche in Paesi come Camerun, Ciad, Repubblica democratica del Congo, Kenya e Somalia, la cosiddetta «mezzaluna jihadista», il fronte sembra ulteriormente guadagnare terreno attraverso il Sahel e continua a spingere verso i Paesi costieri del Golfo di Guinea.
Nell’ultima settimana, lontano dai riflettori della stampa internazionale occupata con la guerra in Ucraina, tre attacchi jihadisti sono avvenuti in Togo e Benin, provocando almeno 8 morti e oltre una decina di feriti tra i soldati governativi. Con la vicinanza delle elezioni presidenziali, previste tra meno di tre mesi, anche la Nigeria ha registrato un aumento di violenze e una collusione tra gruppi di terroristi islamici e il crimine organizzato che hanno organizzato una serie di attentati, sequestri di massa, uccisioni e assalti contro villaggi e basi militari. « La Russia sta sfruttando il disimpegno europeo in Africa subshariana per rafforzare le sue radici – affermano gli esperti –. Dal Mali alla Repubblica centrafricana e dal Burkina Faso al Burundi, Mosca sta allargando la sua influenza».
Il Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani (Gsim) è già stato etichettato come «l’organizzazione terroristica in più rapida crescita al mondo», responsabile di 351 morti nel 2021, un aumento del 69% per cento rispetto all’anno precedente. Testimonianza del fatto che non può che godere di appoggi esterni. Il gruppo terroristico più «letale » a livello internazionale è invece lo Stato islamico nella provincia dell’Africa occidentale (Iswap) dove in Niger ogni suo attacco ha provocato in media 15 morti da quando si è formato nel 2015. Con un sempre maggior fabbisogno di risorse naturali, legate soprattutto al settore energetico, l’Africa sembra ormai tornata a essere l’ultima frontiera degli investimenti stranieri. In Nigeria, Ghana, Costa d’Avorio, Congo e Angola si sfrutta il petrolio, in Senegal e Mozambico il gas, in Burundi e Niger l’uranio, in Congo il cobalto, in Guinea (Conakry) la bauxite, in Mali e Burkina Faso l’oro. E non è finita.