IL SACRO SILENZIO DI MYKIS

“Caro Mykis Godefroid Nsabimana, come promesso, ho scritto la tua storia. Nel renderla pubblica affronteremo insieme i rischi e gli ostacoli. Sono sicuro che altre persone si uniranno ai nostri sforzi per far luce dove persiste l’oscurità. Vediamo come pulsa il cuore di questo mondo. Spero veramente che la verità ti liberi dal campo-profughi in cui le dinamiche della vita ti hanno imprigionato. Inutile dirlo, non è tua la colpa.”

Per 46 anni l’ordine religioso dei Missionari Comboniani ha nascosto il figlio illegittimo di uno dei suoi preti. Mykis, metà italiano e metà burundese, è considerato una minaccia per la Chiesa ed è oggi costretto a vivere in un campo-profughi in Kenya. Suo padre, l’ormai defunto padre Giovanni Capaccioni, è riuscito a farlo tacere grazie all’aiuto di altri suoi confratelli. Alcuni morti, altri ancora vivi.

Di Matteo Fraschini Koffi

LOMÉ, TOGO – La dolce voce puerile di Mykis tradisce i suoi 46 anni. La natura l’ha dotato di una gentilezza disarmante che ti spinge a volergli bene fin da subito. La sua anima è impossibile da penetrare perché non ha filtri. Dietro di essa si cela però il lato oscuro di un fenomeno endemico in Africa: l’esistenza dei figli di preti cattolici. Mykis è il frutto più proibito della Chiesa. Il segreto dei segreti. Parlare con il figlio di un missionario italiano è un’esperienza strana, ai limiti della logica. È come entrare in contatto con una specie umana originaria di un’altra dimensione. Speciale. Eppure, da decenni, Mykis è considerato un rigetto da chi avrebbe dovuto amarlo di più. Attualmente vive in una capanna fatta di legno e lamiera situata all’interno del campo per rifugiati di Kakuma, nel nord-ovest del Kenya. Secondo l’ordine religioso dei Comboniani non si meriterebbe altro.

La sua “colpa” è quella di essere nato dall’abuso sessuale di padre Giovanni Capaccioni, deceduto l’anno scorso, contro una studentessa burundese di 16 anni che frequentava la parrocchia del missionario. Il suo colore di pelle, un chiarissimo marrone, è troppo rischioso da sfoggiare in un Paese marcato da costanti violenze interetniche. Per questo Mykis ha da sempre affrontato discriminazioni e abusi che continuano fino a oggi. Sulle spalle porta nomignoli come: meticcio, metisse, halfcast, cinese, giapponese, europeo, bianco, muzungu (uomo bianco). C’era chi lo chiamava “il figlio di Jackie Chan”. La madre di Mykis fu persino accusata di aver avuto un figlio con uno degli operai cinesi che costruivano strade tra le verdi colline del Burundi. La gente non si fida di lui quando lo vede.

“A scuola non potevo neanche parlare il Kirundi, la lingua nazionale”, racconta con disperata ironia il rifugiato italo-burundese, “Per loro un africano bianco non poteva conoscerla così bene! Le autorità locali mi rilasciavano i documenti d’identità solo a condizione che non li usassi sul territorio burundese. Qui a Kakuma si chiedono come faccia un bianco ad essere un rifugiato in Africa. Mi trattano da spia, mi dicono che non appartengo a questo posto, che devo andarmene”. I rifugiati solitamente fuggono da un Paese perché sentono che la loro vita è minacciata. Non si aspettano di affrontare le stesse minacce all’interno del campo in cui cercano protezione. Isolarsi è stata quindi per anni l’unica strategia di Mykis. Ma solo una volta superato il desiderio di suicidarsi. Farsi conoscere pubblicamente oggi sembra l’ultima risorsa. Un modo per ricostruire un’identità spezzata alla nascita dalla debolezza di una presunta guida spirituale di passaggio in Africa.

IL MISSIONARIO

Padre Giovanni Capaccioni, più comunemente noto come padre Gianni, approdò in Burundi, verso la metà degli anni Settanta. Il Paese cercava di sopravvivere. Gli orrori del primo genocidio burundese scoppiato nel 1972 hanno provocato tra le 80mila e 210mila vittime, in gran parte di etnia Hutu. Centinaia di migliaia di burundesi sono invece scappati negli Stati limitrofi di Tanzania, Uganda e Zaire (attuale Repubblica democratica del Congo). Nel 1976 il missionario comboniano aveva preso i voti da oltre dieci anni. Gli sono però bastate alcune settimane in Africa per cedere alla tentazione dell’impunità locale commettendo l’irreparabile.

“È stata mia nonna, la madre di mia madre, a parlarmi per prima di padre Gianni Capaccioni”, mi spiega Mykis con un tono privo di rabbia o risentimento. “Mi raccontava di come mio padre era una buona persona che giocava a calcio con i bambini e offriva a tutti caramelle e cioccolatini. Mia mamma, invece, non ha mai voluto raccontarmi niente. Non potevo neanche nominare padre Capaccioni che scoppiava subito a piangere. Altri preti sapevano la vera identità di mio padre ma me l’hanno sempre nascosta. Per anni ho infatti pensato che fosse già morto”.

Il missionario aveva 36 anni all’epoca. Originario di Città di Castello in provincia di Perugia, diceva di avere la vena per il giornalismo e la fotografia. Nonostante alcuni periodi passati in Burundi e Benin, il resto della sua vita l’ha trascorso nella comunità comboniana di Cavallino, un piccolo comune alle porte di Lecce. Nel 2005 era diventato un superiore. L’arcivescovo di Lecce, monsignore Michele Seccia, lo aveva poi nominato capo della commissione diocesana “Migrantes”, un ruolo che secondo molti portava avanti con grande zelo.

Non potevano mancare varie iniziative dedicate alla cultura africana e all’accoglienza dei migranti. “Aveva portato l’Africa in Salento”, erano soliti dire i suoi parrocchiani. Tali affermazioni contrastavano con il soggiorno del missionario in Burundi da cui, apparentemente, era stato costretto a fuggire perché le autorità locali lo avevano accusato di traffico d’armi. “La falsa accusa era grave”, aveva scritto padre Capaccioni al figlio in uno dei numerosi e-mail scambiati durante gli anni. “Vendita di armi ai ribelli. Io che non ho mai avuto una pistola!”.

ADDIO BURUNDI

Tornato in Italia, il religioso ha continuato la sua vita come se niente fosse successo in quella lontana terra africana. Difficile sapere se fosse a conoscenza di aver messo incinta una burundese. La campanella del dubbio è comunque suonata una sera di circa quindici anni fa. “Dopo aver raccontato la mia storia ad alcuni occidentali residenti in Burundi e disposti ad aiutarmi a trovarlo”, racconta Mykis in uno dei suoi messaggi vocali che ho voluto registrasse su whatsapp, “ho potuto telefonare a mio padre per la prima volta nel 2009. All’inizio è stato complicato parlargli, non voleva saperne di me. Una suora mi aveva dato il numero della parrocchia di Lecce dove credo molti conoscano la mia storia”.

Dopo vari tentativi, Mykis è finalmente riuscito ad avviare un dialogo con suo padre. “Negli anni seguenti abbiamo mantenuto una regolare corrispondenza via email”, continua il rifugiato. “Ha stabilito un compenso di 150 euro che mi spediva quando ne avevo più bisogno. Poco dopo mi ha però teso un’imboscata”. Il comboniano ha chiuso ogni comunicazione quando Mykis ha menzionato il suo riconoscimento. Dopo alcune settimane di silenzio, però, padre Capaccioni è tornato con un’idea: la scelta tra il riconoscimento per ottenere la cittadinanza italiana e il finanziamento di un progetto agricolo chiamato “Agri-food”. Il sogno di Mykis era promuovere in Burundi la coltivazione biologica di cipolle e cereali. “Purtroppo avevo disperatamente bisogno di denaro e sognavo di lanciare una mia impresa dopo anni di difficili studi”, ammette con profondo rimpianto. “Ho quindi scelto il progetto agricolo che, avrei dovuto immaginarlo, non è mai decollato”.

Una volta ricevuti i dettagli del progetto su un documento PDF e impressionato dalla professionalità di suo figlio, padre Capaccioni ha risposto che ci sarebbero volute “alcune settimane unicamente per meglio approfondire e tradurlo in lingua italiana (almeno i punti essenziali)”. Era l’ottobre del 2013. Intanto il caso di Mykis veniva gestito da una sorta di eminenza grigia, monsignore Serapio Bambonanire. Un controverso religioso burundese legato al regime del defunto presidente, Pierre Nkurunziza. “Serapio sapeva di mio padre da sempre”, continua Mykis. “Diceva che amava corteggiare le ragazzine”. Incaricato da alcuni esponenti della congregazione comboniana, Serapio gli ha trovato un lavoro nell’azienda di suo nipote. L’obiettivo era non perderlo di vista. “Ma con il tempo ha cominciato a minacciarmi e a insultarmi”, spiega Mykis. “Il salario non arrivava più e suo nipote mi ha confessato che Serapio era solito controllare il mio telefono ogni volta che lo lasciavo sul tavolo in ufficio”.

IL GESUITA

La ragione di tanta infiltrazione nella vita privata di Mykis era legata al coinvolgimento di un giovane missionario europeo appartenente all’ordine dei Gesuiti. Entrambi avevano stretto una buona relazione a Kakuma nel 2011. Padre X (il missionario non mi ha ancora dato il permesso di rivelare il suo nome) aveva incontrato a Roma padre Capaccioni e l’aveva convinto ad accettare una corrispondenza scritta con suo figlio. In seguito, il Gesuita ha dato persino la sua disponibilità per trovare degli avvocati e parlare con i suoi superiori in Vaticano. Voleva convincere padre Capaccioni a riconoscere suo figlio prima di un eventuale, inaspettato decesso.

Probabilmente a conoscenza degli scambi via e-mail tra Mykis e padre X, Serapio ha accusato entrambi di voler provocare uno scontro morale fra Comboniani e Gesuiti. Papa Giovanni Paolo II era apparentemente a conoscenza del figlio di un Comboniano in Burundi. Avrebbe quindi bloccato la candidatura di padre Capaccioni come superiore generale dei Comboniani nel mondo, un ruolo coperto attualmente dall’etiopie, padre Tesfaye Tadesse Gebresilasie. Nel 2012 padre X è stato inviato in Asia e infine e’ tornato nel suo Paese d’origine in Europa dove per alcuni anni ha mantenuto una corrispondenza con il suo coetaneo in Africa.

“Caro Padre X”, gli scriveva Mykis, “Ho appreso con sdegno che monsignore Serapio si è investito anima e corpo affinché fossi licenziato dall’azienda dove lavoravo. Tutti i miei tentativi di contattarlo per una breve conversazione sono falliti. Anche quando lo chiamo con un numero sconosciuto, interrompe la chiamata non appena mi riconosce. E poi, invece di dirmi concretamente come poteva aiutarmi, si è accontentato di diffamare te e intimidire me. Ad esempio, mi ha detto che merito l’eliminazione fisica dato il pericolo che rappresento per la congregazione e la Chiesa cattolica in generale. Secondo lui padre Capaccioni vale talmente tanto per la Chiesa che sarebbe meglio che io sparissi”.

La tensione si stava alzando. “Caro Mykis, ciao”, gli ha scritto il missionario comboniano. “Prima di tutto vorrei dire una parola per rassicurarti della mia lealtà nei tuoi confronti. Non ho mai pensato di farti del male, mai in vita mia! Voglio solo che la nostra situazione si risolva senza ferirsi a vicenda e con reciproca soddisfazione.” A questa premessa ha aggiunto: “Ho parlato con monsignore Serapio perché conosce bene la tua famiglia, ha conosciuto anche me nei momenti difficili dell’espulsione [dal Burundi]. […] Vedo, da quello che mi scrivi, che sei ancora legato a padre X. Non ho niente da dirti, ma con lui arriveremo all’esasperazione di questa situazione e ognuno di noi avrà dei rimpianti. Non immagina cosa succederà con le sue proposte perché non conosce le leggi dell’Italia, le difficoltà di tanti giovani che, a causa del lavoro, sono costretti a lasciare la propria terra e andare all’estero. La disoccupazione è aumentata notevolmente”. Per concludere, padre Capaccioni ha cercato di rimettere la sorte di suo figlio nelle mani del pericoloso prelato burundese: “Il mio consiglio”, ha concluso il missionario, “rivolgiti a monsignor Serapio con fiducia e umiltà, sono sicuro che risolveremo anche la questione economica. Lasciamo da parte, su questa questione, padre X.”

Gli anni passavano, e-mail dopo e-mail. Mykis faceva dei lavori modesti che difficilmente riusciva mantenere a causa della costante discriminazione. Si affidava soprattutto agli aiuti in denaro di suo padre e di altri benefattori a cui raccontava la sua storia. Senza più l’appoggio di padre X, unico suo amico in questa triste storia, le speranze riguardo al progetto “Agri-food” svanivano. Così come la possibilità di essere riconosciuto da suo padre. Inoltre, padre Capaccioni era ormai sempre più fragile fisicamente come spiegava al figlio nel dicembre del 2018: “Caro Mykis, spero che il tuo corpo ora sia sano”. Sono innumerevoli le volte che Mykis ha contratto la malaria nel campo-profughi di Kakuma. “Ho inviato 150 euro il 16 e 20 novembre. Hai ritirato quei soldi? […] E ora la mia forza è diminuita, le articolazioni delle ginocchia e delle braccia non mi sostengono più così tanto”.

Erano innumerevoli anche le giustificazioni che il comboniano ha utilizzato negli anni per tenere nascosto suo figlio. “Non ho nemmeno più il passaporto”, precisava il religioso. “Quello che posso fare è continuare a darti aiuto come ho fatto finora. In Europa i poveri aumentano e la situazione è peggiorata. Niente lavoro, niente più medicine gratuite per una serie di malattie. La Comunità europea rende tutto più debole e difficile”. Mykis rimpiange il fatto di non aver insistito per ottenere il riconoscimento di suo padre. Un errore di strategia che padre X cercava di fargli notare senza però influenzarlo. Il 18 febbraio del 2022, alle 12:04, Mykis ha ricevuto l’ultimo e-mail di suo padre: “Mi e’ impossibile comunicare. La salute e’ a zero. Ciao”.

IL FUNERALE

Meno di due mesi dopo, il 13 aprile del 2022, il missionario comboniano moriva senza aver mai riconosciuto suo figlio. Tra i vari comunicati che esprimevano le proprie condoglianze c’era quello pubblicato dalla diocesi di Lecce: “Ieri mattina, la Chiesa di Lecce guidata dall’arcivescovo Michele Seccia in concelebrazione con numerosi sacerdoti, i confratelli di Cavallino e Padre Fabio Baldan, superiore provinciale dei Missionari Comboniani d’Italia, insieme a tantissimi fedeli amici, si è stretta nella celebrazione eucaristica “dell’ultimo viaggio” di Padre Gianni: il sacerdote, il padre, il fratello o semplicemente l’amico sempre pronto a farsi prossimo e capace di accarezzare il cuore di tutti”.

Il 19 aprile alle 11 di mattina, un folto gruppo di religiosi, familiari e amici di padre Capaccioni si è raccolto con il capo chino per celebrare “l’ultimo saluto” nel parco della comunità. Il sole batteva forte sulle bianche tuniche dei sacerdoti. Una serie fitta di alberi circondava i fedeli riuniti in preghiera. L’altare e la bara in legno erano coperti da sgargianti tessuti africani. Tutti erano pronti alla messa. “Nel nome del padre e del figlio…”, ha iniziato monsignore Seccia. La sua omelia è stata un lungo ringraziamento nei confronti del defunto missionario per avergli fatto scoprire l’Africa. L’arcivescovo di Lecce aveva visitato nel gennaio del 2000 un altro Stato africano, il Benin. A partire dal 1996, padre Capaccioni ha trascorso tre anni in una missione aperta dalla diocesi di San Severo a Wansokou, una remota località nel nord del Paese.

Dopo aver saputo della morte di suo padre via e-mail da padre Jeremias Martins, vicario generale dei Comboniani, Mykis ha cercato notizie su internet. Ha trovato e tradotto un articolo di Pantaleo Gianfreda intitolato: “Costruiamo la Pace: il messaggio di pace e umanità che lascia l’immenso e dolcissimo Padre Gianni”. Scosso dalla morte di suo padre ma rivendicando il lecito e timido desiderio di farsi finalmente notare, il rifugiato italo-burundese ha lasciato una delle sue poche orme su internet in 46 anni di vita. “Che la terra gli sia lieve!”, ha scritto nella sezione in fondo dedicata ai commenti. “La sua morte è stata una triste notizia per me e per la mia famiglia in Burundi. È nelle mani dell’Onnipotente Signore di cui non dubito. Non dimenticherò mai i suoi suggerimenti.”

Persino alla fine, il figlio rifugiato del missionario comboniano non ha potuto fare a meno di lodare il padre per tutto ciò che di positivo si è rivelato nella loro vita. Anche se non c’era molto. Inoltre, Mykis non voleva ancora svelare la sua vera identità pubblicamente. I figli dei preti vengono educati fin da piccoli a restare nascosti. Non vogliono creare imbarazzo né scandalo. Ha quindi aspettato invano per mesi. Sperava che Gianfreda, l’autore dell’articolo, o qualcuno della comunità del Cavallino, lo contattasse.

GLI AVVOCATI

Dopo il funerale è quindi cominciata un’altra battaglia. Sempre con grande rispetto, Mykis ha tentato di richiedere l’aiuto dei Comboniani affinché si potesse avviare la procedura per il riconoscimento. “Gli ho scritto che avrei voluto partecipare al funerale di mio padre e che ero disposto a fare il test del DNA”, mi ha spiegato Mykis mostrandomi gli e-mail scambiati con i religiosi. Alcuni rispondevano dicendo di ignorare l’esistenza di un figlio avuto da Capaccioni in Burundi. Altri sembravano darla per scontata. Padre Martins ha trasferito il caso a padre Fabio Baldan. Padre Baldan lo ha quindi trasferito “a un nostro consulente legale per fornirci un parere in merito alla vicenda”. Il 30 maggio del 2022, in un linguaggio giuridico difficile da comprendere per qualsiasi italiano, è arrivata una lettera. In alto c’era l’indirizzo di uno studio legale di Verona mentre a sinistra c’era la firma dell’avvocato M. B. Nella stessa colonna c’era una lista di altre 11 persone tra avvocati, dottori e commercialisti.

Nel documento PDF di una sola pagina che avrebbe dovuto mettere a tacere una volta per tutte Mykis, si attesta come secondo la legislazione italiana, “in difetto di un accertamento, nessun diritto può essere vantato dal presunto figlio naturale nei confronti del preteso genitore”. Alcuni dei Comboniani coinvolti in questa lunga vicenda sono Padre Jean-Paul Pezzi, detentore di un blog chiamato Giustizia, Pace e Integrità della Creazione (JPIC); padre Silvio Zanardi, un missionario tornato in Malawi a 82 anni che aveva offerto a Mykis la sua ospitalità; padre Elio Boscaini, missionario e giornalista della rivista dei Comboniani, Nigrizia; padre Giovanni Nobili, missionario deceduto nel 2016 in Uganda; infine, padre Alberto Pelucchi, che sapeva di Mykis almeno dal 2013. Tutti loro hanno incrociato fisicamente il figlio di padre Capaccioni o sapevano della sua storia. E hanno preferito abbandonarlo in un campo per profughi.

LA MADRE

Era arrivato il momento di contattare in Burundi la madre di Mykis: Marie Therese. La luce in fondo a questo lungo tunnel oscuro. Da quasi vent’anni cerco di conoscere le devastazioni del continente africano attraverso il mio lavoro, ma niente avrebbe potuto prepararmi alla testimonianza di questa donna. “Sì, chiama pure mia madre!”, mi ha detto Mykis, ansioso rispetto all’idea che magari un giornalista avrebbe potuto scoprire quello che, come figlio, non ha mai saputo di sua madre. “Non sta molto su whatsapp, lavora nei campi per guadagnare qualcosa, ma vedrai che ti racconterà quello che può. È ancora molto traumatizzata da questa storia, credo”.

Anche con Marie Therese ho deciso di dialogare attraverso i messaggi vocali. Messaggi più rigogliosi di sospiri, silenzi, e pianti sommessi, che di mere parole. La sua voce è densa di sofferenza, quasi monotona, fluida. Non si è mai alzata di volume e non ha mai accelerato di ritmo. Con grande difficoltà ha cominciato la sua audio-testimonianza. In sottofondo si poteva ascoltare il cinguettio proveniente dalla foresta attorno. Qualche secondo di silenzio, un singhiozzo piangente, e infine un colpo di tosse per schiarirsi la voce: “…Lei mi sta facendo…ricordare una storia…[urlo leggero, pianto]…che…mi ha lasciato…una cicatrice…[tenta di ricomporsi]. Anche ora, se mi ricordo di lui..la prego…mi lasci innanzitutto…ok, rifletto, dopo le dico [sospiro]…[si scaglia veloci colpi sul suo petto, come se dovesse ricaricare la sua batteria spirituale prima di parlare]. Mi scusi…”

Pensavo che Marie Therese non avesse la forza per continuare. Pensavo si fermasse. Invece, dopo alcuni profondi secondi di riflessione, ha continuato. “Non ho conosciuto padre Capaccioni come amico, no…Semplicemente: mio padre era il guardiano della parrocchia dove padre Capaccioni, insieme a padre Elio…padre Silvio…padre Gianni Nobili, erano tutti in questa parrocchia di Mabayi. La mia famiglia abitava molto vicino alla parrocchia. Io ero una studentessa…ero una studentessa…”. Si sforza di trattenere le lacrime mentre continua a sospirare. “…Mamma mia… Eravamo, ero…[continui sforzi per trattenere le lacrime, in sottofondo sento i versi degli animali della fattoria dove lavora. A un certo punto si alza e inizia a passeggiare]. Ero tra le…quindi….[si ricompone ancora un volta dopo 30 lunghi secondi di silenzio]. Ho conosciuto non pochi….problemi. Sono stata umiliata…la nostra non è stata una storia d’amore ma di…si dice ‘copinage’, o sbaglio? [altri lunghi secondi di silenzio e sforzi]. Mi ha semplicemente preso…la prego…non mi faccia ricordare”.

Ancora una volta pensavo che Marie Therese si fermasse qui. Invece, venti minuti dopo è arrivato un altro messaggio vocale. Poi un video-messaggio. Il campo fitto di alberi da cui stava comunicando ricorda il luogo in cui è stato celebrato il funerale di padre Capaccioni. Marie Therese è ora una signora che pare più anziana della sua età. Pelle scurissima, rughe marcate, capelli un po’ sfatti, occhiali da vista. Ogni tanto si copre gli occhi con una mano mentre cerca di raccontare. Ammette che ancora oggi ci sono persone che le fanno delle pressioni. Preferisce comunque non svelare i dettagli.

“Mi scusi”, riprende sempre con molta calma, “[Padre Capaccioni] mi ha lasciato con questa gravidanza. [Avevo 16 anni]. Non ci siamo più rivisti. Più rivisti. Lui non mi ha cercata. Almeno, non credo. Ho provato a vivere con Mykis…ho fatto del mio meglio. Ho poi avuto altri figli. Per Mykis non ho più niente…per me non ho più niente. […]”. Marie Therese fatica a nominare il religioso comboniano. “Mi ha maltrattata. Mi ha torturata. Ora sono vedova…sono vedova. Rimpiango…rimpiango. Mykis l’ho mandato a scuola ma non riesce a trovare lavoro…non riesce a trovare lavoro. Non come è successo con gli altri miei figli. Vive alla giornata…come anch’io vivo alla giornata. Una storia […] del silenzio. Ma, mi scusi – conclude sempre senza nominare il missionario – io l’ho perdonato. Io l’ho perdonato mio….mio malgrado…mio malgrado.”

In una decina di messaggi vocali, Marie Therese mi spiega di come il missionario si serviva di Nicodem, il cuoco della parrocchia, per chiamarla e farla venire nella sua stanza.

“A volte padre Capaccioni mi domandava di fare la traduzione [dal francese al kirundi] dell’omelia che avrebbe usato per la messa della domenica. Quindi, utilizzava questa giustificazione per vedermi….è così che mi ha preso [cerca di trattenere le lacrime e si ricompone]. Mi ha usata. Non sapevo cosa fare…non sapevo cosa fare. Mi ha messo incinta ed è partito, per sempre…per sempre. [sospiro profondo].”

Nel suo ultimo vocale si sente che ha preso un bimbo tra le braccia, forse il figlio del padrone della fattoria in cui lavora. Avrà qualche mese e piagnuccola in sottofondo. “Anch’io ho avuto non poche conseguenze. [Padre Capaccioni] mi ha frenata. Volevo continuare gli studi. Ma all’epoca…in Burundi…le ragazzine incinta venivano cacciate da scuola. Infatti mi hanno subito cacciato da scuola appena hanno scoperto che ero incinta. [Padre Capaccioni] mi ha frenata. Sono tornata a casa. Ho provato a cercare lavoro ma non era facile visto che non avevo finito gli studi… [lunghi e profondi secondi di silenzio. Poi un ultimo grande sospiro].

“Mi ha ucciso, le dico… – la voce di Marie Therese dolcemente in decrescendo – mi ha ucciso…mi ha ucciso…mi ha ucciso”.

MYKIS

Oggi Mykis ha una moglie e due figlie di 8 e 3 anni che vivono in Burundi. Lui, invece, continua a vivere nel campo di Kakuma dove in questi giorni la temperatura raggiunge i 40 gradi sotto l’ombra delle acacie. Non vuole che la sua famiglia sia vittima di quello che ha vissuto. La sua tessera di rifugiato ha un numero ben preciso. Deve ricordarselo a memoria per evitare di essere espulso. Quando non ha soldi cerca di farsi dare qualcosa dai suoi vicini. Nella nostra prima video-chiamata, ha fatto lo sprint tra le capanne per raggiungere di corsa il primo cartellone stradale sulla strada asflatata più vicina. Bianco su verde c’era scritto in alto “KAKUMA” e in mezzo “REFUGEE”. La parola in fondo, “CAMP”, è coperta dalla sua testa. Pollice destro alzato, si è scattato un selfie con le labbra serrate, gli occhi socchiusi e una simpatica espressione di sfida. Fiero di essere un sopravvissuto.

Ha scelto di abitare in un campo-profughi perché rischia meno le discriminazioni mescolandosi ad altri rifugiati etiopi, somali, e sudanesi. Molti di loro hanno la pelle chiara come la sua. Ancora pochi si fidano quando si presenta come un burundese. Mykis è dovuto fuggire da un Paese teatro di due genocidi, ripetute guerre civili, e 400mila rifugiati nel 2015. Una terra con solo il 12 per cento delle strade asfaltate dove vivono 12 milioni di abitati in 27 mila chilometri quadrati, un’area poco più grande della Lombardia. Si è sentito costretto a lasciare una realtà dove indicibili violazioni dei diritti umani hanno traumatizzato intere generazioni.

“Spero di ottenere un giorno la cittadinanza italiana”, ammette il rifugiato italo-burundese, “e di visitare la terra di mio padre”. Il progetto Agri-food si è invece trasformato, almeno idealmente, nel “My Kiss Project”. Un titolo che oltre a significare “il mio bacio”, gioca sul suo nome, Mykis. Probabilmente un nome unico al mondo. Padre Capaccioni, invece, fa parte di un numero imprecisato di missionari italiani che, abusando del loro potere, hanno fatto e abbandonato i loro figli in Africa. Un fenomeno ancora troppo complicato da affrontare. Un giorno, forse, ce la faremo.

“Caro Mykis Godefroid Nsabimana, come promesso, ho scritto la tua storia. Nel renderla pubblica affronteremo insieme i rischi e gli ostacoli. Sono sicuro che altre persone si uniranno ai nostri sforzi per far luce dove persiste l’oscurità. Vediamo come pulsa il cuore di questo mondo. Spero veramente che la verità ti liberi dal campo-profughi in cui le dinamiche della vita ti hanno imprigionato. Inutile dirlo, non è tua la colpa.”

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