Quella romantica storia di un maglione fatto a mano

di Patrizia Cecconi

Era d’estate e mi trovavo in un paesino piccolo piccolo ai confini tra l’Umbria e le Marche. Un piccolissimo centro a 3 km esatti da Colfiorito, nome tristemente noto alle cronache di fine Novecento a causa di uno dei terremoti più devastanti che hanno ferito l’Italia negli ultimi decenni.
Era d’estate ed erano tanti anni fa. C’era ancora la lira e ricordo che all’epoca indossavo per tutto l’inverno dei jeans e dei maglioni bianchi di lana grossa. Era una specie di divisa “proletaria” dentro la quale mi trovavo bene. Poi, quando arrivava il caldo, cambiavo i jeans e il maglione con due vestiti indiani, uno bianco e uno a fantasie bordeaux. Era la divisa estiva. Poi avrei aggiunto il gonnellone a fiori e, ai piedi, gli zoccoli che conservai anche quando l’habitus femminista che li aveva portati in auge si spostò verso altri modelli.


Era d’estate e mi trovavo in un paesino piccolo piccolo ai confini tra l’Umbria e le Marche. Un piccolissimo centro a 3 km esatti da Colfiorito, nome tristemente noto alle cronache di fine Novecento a causa di uno dei terremoti più devastanti che hanno ferito l’Italia negli ultimi decenni.
Era d’estate ed erano tanti anni fa. C’era ancora la lira e ricordo che all’epoca indossavo per tutto l’inverno dei jeans e dei maglioni bianchi di lana grossa. Era una specie di divisa “proletaria” dentro la quale mi trovavo bene. Poi, quando arrivava il caldo, cambiavo i jeans e il maglione con due vestiti indiani, uno bianco e uno a fantasie bordeaux. Era la divisa estiva. Poi avrei aggiunto il gonnellone a fiori e, ai piedi, gli zoccoli che conservai anche quando l’habitus femminista che li aveva portati in auge si spostò verso altri modelli.
Non c’erano guardaroba nella mia casa. Li consideravo una limitazione alla libertà. Uno strumento borghese di cui non sentivo il bisogno. Ero libera. Una libertà che risentiva di una sola catena, quella del lavoro. Senza il lavoro non sarei stata libera perché non avrei avuto fonti di sostentamento, ma il lavoro era la limitazione della mia libertà. Una contraddizione insanabile che necessitava di un compromesso. Il compromesso lo trovai nel non lasciarmi imporre un comportamento e un look – come si diceva allora per sentirsi in – consono a quello che era il mio “importante” lavoro dal quale, comunque,  sapevo che mi sarei affrancata appena possibile.
Era un’estate di quelle in cui portavo il vestito indiano bianco – quel vestito che per motivi a me ancora oggi oscuri attirava l’attenzione di molte persone – quando andai in quel paesino piccolo piccolo dove resisteva ancora una casa costruita nel 1600 che aveva retto a 400 anni di terremoti e che avrebbe ceduto solo all’ultimo, quello del 1997. Era la casa di una parte della mia famiglia paterna e quel paese era per me “il paese”, e mio zio Giorgio, allevatore di cavalli e, secondariamente, ufficiale postale, era “lo” zio.
Era un’estate molto calda e appena scesi dalla mia macchina – avevo una Renault 4 rossa, altro pezzo della mia divisa dell’epoca – le signore sedute sui gradini delle case alzarono gli occhi dai ferri con i quali stavano lavorando a maglia per dirmi che col mio vestito ero venuta a portare un alito di freschezza e mi riempirono di complimenti. Qualcuna azzardò perfino che sembravo una principessa! Roba da chiodi, era un vestito da due soldi comprato a Porta Portese! Volevo dirlo, ma forse non sapevano neanche cosa fosse Porta Portese e così, tanto per trarmi d’impaccio, chiesi loro come mai con quel caldo stessero tutte lavorando a maglia facendo pullover che sembravano piuttosto pesanti e sicuramente invernali.
Mentre mi raccontavano tutte felici che un giorno una persona era venuta a spiegare loro che avrebbero potuto lavorare a maglia anche d’estate come già facevano d’inverno davanti al camino, mia madre sentì la mia voce e scese a salutarmi troncando il loro racconto.
Mia madre ruppe anche l’incantesimo del mio abito bianco dicendomi: «ma possibile che non c’hai mai un vestito decente e ti devi vestì sempre come ‘nastracciona!». Ebbene sì, mia madre era fatta così. Lei mi avrebbe voluto vedere con tailleur da donna in carriera o almeno con una camicetta di seta da signorina per bene. Anche sulla mia macchina aveva da ridire e, in genere, sul mio stile di vita, però poi so che alle mie spalle parlava bene di me! Comunque scoprii che anche lei aveva i ferri da lana e di lì a poco si sarebbe seduta sui gradini insieme alle sue amiche a fare il suo maglione. Ma che era successo? Una moda? Una malattia? Una scommessa di paese? Una maledizione biblica? Con quel caldo tutte a lavorare la lana! Ogni tanto arrivavano i ragazzini di corsa a chiedere qualcosa e sentivi queste signore rispondere: «buono a nonna, aspetta un attimo che devo contà le maglie». Roba che fino all’estate precedente i ragazzini erano sacri e ogni desiderio veniva esaudito prima ancora d’essere espresso! Un’ipnosi collettiva sembrava averle contagiate tutte.
Era successo che un giorno era arrivata una persona che andava in giro per i paesi piccoli piccoli dove c’erano donne che sapevano lavorare bene la lana e aveva fatto loro una proposta: noi vi diamo la lana e il disegno da eseguire. Voi tanto non avete niente da fare e potete passare il tempo chiacchierando e lavorando a maglia. Poi appena finite un maglione noi ve lo veniamo a prendere e per ogni maglione vi diamo diecimila lire.
Ehi, capiamoci, io vi sto parlando dell’inizio degli anni Ottanta, quando il mio vestito indiano costava duemila lire e i miei maglioni invernali quattromila ma forse anche meno. Certo, non era roba da boutique, quella sarebbe piaciuta a mia madre, ma era comunque abbigliamento e io con diecimila lire di maglioni ce ne avrei comprati due e mezzo. Lo credo che quelle signore erano tutte felici! Sì vabbè, ma se a loro davano diecimila lire, chi li comprava li avrebbe pagati almeno venti! Beh certo, ma non facevano male a nessuno e loro si ritrovavano ad avere un reddito personale senza cambiare vita e senza dipendere dai mariti. Una vera emozione, e un’emozione che andava oltre il denaro. Era l’idea di un lavoro proprio, neanche sentito come lavoro ma come riconoscimento della loro abilità, e pure retribuito!
Avete presente quello che oggi, con la mania anglofila che rende tutto moderno, viene chiamato smart working? Che poi sarebbe lavoro a domicilio e tanto smart non è che lo sia, però fa molto chic definirlo così e grazie al Covid-19 viene lanciato come lavoro del futuro, l’avete presente? Beh, non è così moderno, lo facevano già le signore di un paesino piccolo piccolo incastrato tra l’Umbria e le Marche 40 anni fa!
Io all’epoca non m’intendevo di griffe e quando mi fecero il nome della ditta per cui facevano i maglioni, quel nome non mi disse niente. Conoscevo solo Pierre Cardin perché mi avevano regalato una tenda griffata spiegandomi che era un oggetto di valore per via di quella firmetta che appariva lungo il bordo. Infatti la regalai a mia sorella facendola felice.
Insomma per me Missoni, Armani, Versace non erano che dei cognomi italiani qualunque.
Poi l’estate passò e, come succede ogni anno, con o senza crisi, guerre, terremoti o epidemie arrivò l’autunno e, passando davanti a un negozio cosiddetto elegante nel centro di Roma, che ti vedo? Un maglione esatto, identico a quello che aveva realizzato la signora Attilia. Accanto al maglione campeggiavano due cose a mo’ di presentazione: la scritta “fatto a mano” e io lo sapevo che era vero, e la griffe. Missoni? Armani? Non ricordo, il nome è passato in secondo piano quando ho visto il prezzo. Come faceva un maglione a costare 160mila lire? Era un decimo del mio stipendio che era uno stipendio altissimo allora. Chi poteva comprarsi un maglione da 160 mila lire? Io sì, certo, ma non lo avrei mai fatto. Sarebbe stato uno schiaffo in faccia alla povertà.
Forse oggi non si comprende l’entità dello scandalo perché l’euro ha modificato la percezione delle grandezze monetarie in lire. Mi pareva assurdo, altro che plusvalore! Manco Marx avrebbe pensato a un livello tale di furto operato sulla forza lavoro. Andai a trovare mia madre, dovevo dirglielo. Ovviamente fu stupita perché da quando ero uscita di casa, a poco più di 21 anni, mi vedeva raramente. Mia madre cucinava molto bene e se voleva dirti benvenuto ti preparava al volo qualcosa di buono, in caso contrario ti faceva un caffè. Era un codice preciso, lo faceva anche con i nostri amici e fidanzati e noi lo sapevamo e ci facevamo le scommesse.
«Beh, qual buon vento ti porta? Ti fermi a cena, sì?» Questo il suo benvenuto perciò potevo prendere subito l’argomento maglione. Ero sul piede di guerra e le dissi quel che avevo visto. La sua risposta fu una parolaccia pesantuccia all’indirizzo della firma di grido e poi mi raccontò che aveva avuto alcune discussioni con le signore del paese il giorno in cui una di loro aveva detto: «noi non siamo come quelle operaie che pretendono tutto dal padrone e infabbrica organizzano gli scioperi, quelle sarebbero tutte da licenziare e i padroni farebbero bene a dare il lavoro solo a quelle come noi».
Allora mia madre aveva riflettuto e aveva detto: «sì, ma noi stiamo togliendo il lavoro a quelle operaie. A noi piace lavorare a maglia e per noi è un passatempo retribuito, ma il padrone non ci paga la malattia se ci ammaliamo, non ci paga le ferie, non ci mette i contributi, insomma facciamo concorrenza alle operaie, e poi chissà a quanto se li vende sti maglioni, magari pure a trentamila lire!».
Le signore del paese avevano risposto che a loro andava bene così e allora mia madre, che in gioventù aveva lavorato presso una casa editrice e si ricordava che lavorare secondo le regole di un contratto collettivo di lavoro e lavorare in nero erano cose profondamente diverse, decise che non avrebbe più fatto maglioni neanche se glieli avessero pagati il triplo, primo perché quello era sfruttamento e secondo – e forse più importante – perché indeboliva la forza contrattuale delle operaie delle maglierie, cioè, insomma, era come se facesse la crumira e lei queste cose non le faceva.
Quando le dissi che il maglione fatto da Attilia veniva venduto a 160 mila lire, dopo l’imprecazione, fece un breve discorso che mi è tornato alla mente quando in televisione ho sentito proporre il lavoro a domicilio, edulcorato con la definizione molto british di smart working, come nuova forma di lavoro post-epidemia per evitare gli assembramenti. Quanti danni collaterali sta facendo questo Covid19! lo smart working viene presentato come lavoro libero, moderno, che lascia autonomia al/la lavoratore/trice, e dietro queste belle caratteristiche sfugge il fatto che ognuno resta isolato dai suoi compagni, il rapporto lavorativo non è mediato da un contratto collettivo e ciascuno resta alla completa mercé del suo datore di lavoro che diventa il suo padrone. Allora mi sono tornate alla mente le parole di mia madre e le riporto come le ricordo, in romanesco: «si uno nun se rende conto che è solo co l’unione che se fermeno le prepotenze diventa nemico dell’altri lavoratori. Ma che je vai a spiegà a quelle! Se le so comprate co diecimila lire e nun je frega gnente che stanno a danneggià chissà quante pore cristiane che magari verranno pure licenziate. Io nun ce sto e basta».
Il suo maglione non lo vendette, e siccome mio fratello è sempre stato il suo preferito, lo ha completato per il figlio. Chissà se mio fratello se lo ricorda ancora che quarant’anni fa indossava, ma senza la griffe, un maglione forse Missoni, forse Armani solo perché sua madre ce l’aveva chiaro che lo smart working è una mannaia sulla testa di lavoratrici e lavoratori, che vengono privati dei loro diritti in cambio di un pugno di monetine. E chissà se gli italiani, e le italiane, passato il terrore della morte, lo capiranno anche loro!Uno strumento borghese di cui non sentivo il bisogno. Ero libera. Una libertà che risentiva di una sola catena, quella del lavoro. Senza il lavoro non sarei stata libera perché non avrei avuto fonti di sostentamento, ma il lavoro era la limitazione della mia libertà. Una contraddizione insanabile che necessitava di un compromesso. Il compromesso lo trovai nel non lasciarmi imporre un comportamento e un look – come si diceva allora per sentirsi in – consono a quello che era il mio “importante” lavoro dal quale, comunque,  sapevo che mi sarei affrancata appena possibile.
Era un’estate di quelle in cui portavo il vestito indiano bianco – quel vestito che per motivi a me ancora oggi oscuri attirava l’attenzione di molte persone – quando andai in quel paesino piccolo piccolo dove resisteva ancora una casa costruita nel 1600 che aveva retto a 400 anni di terremoti e che avrebbe ceduto solo all’ultimo, quello del 1997. Era la casa di una parte della mia famiglia paterna e quel paese era per me “il paese”, e mio zio Giorgio, allevatore di cavalli e, secondariamente, ufficiale postale, era “lo” zio.
Era un’estate molto calda e appena scesi dalla mia macchina – avevo una Renault 4 rossa, altro pezzo della mia divisa dell’epoca – le signore sedute sui gradini delle case alzarono gli occhi dai ferri con i quali stavano lavorando a maglia per dirmi che col mio vestito ero venuta a portare un alito di freschezza e mi riempirono di complimenti. Qualcuna azzardò perfino che sembravo una principessa! Roba da chiodi, era un vestito da due soldi comprato a Porta Portese! Volevo dirlo, ma forse non sapevano neanche cosa fosse Porta Portese e così, tanto per trarmi d’impaccio, chiesi loro come mai con quel caldo stessero tutte lavorando a maglia facendo pullover che sembravano piuttosto pesanti e sicuramente invernali.
Mentre mi raccontavano tutte felici che un giorno una persona era venuta a spiegare loro che avrebbero potuto lavorare a maglia anche d’estate come già facevano d’inverno davanti al camino, mia madre sentì la mia voce e scese a salutarmi troncando il loro racconto.
Mia madre ruppe anche l’incantesimo del mio abito bianco dicendomi: «ma possibile che non c’hai mai un vestito decente e ti devi vestì sempre come ‘nastracciona!». Ebbene sì, mia madre era fatta così. Lei mi avrebbe voluto vedere con tailleur da donna in carriera o almeno con una camicetta di seta da signorina per bene. Anche sulla mia macchina aveva da ridire e, in genere, sul mio stile di vita, però poi so che alle mie spalle parlava bene di me! Comunque scoprii che anche lei aveva i ferri da lana e di lì a poco si sarebbe seduta sui gradini insieme alle sue amiche a fare il suo maglione. Ma che era successo? Una moda? Una malattia? Una scommessa di paese? Una maledizione biblica? Con quel caldo tutte a lavorare la lana! Ogni tanto arrivavano i ragazzini di corsa a chiedere qualcosa e sentivi queste signore rispondere: «buono a nonna, aspetta un attimo che devo contà le maglie». Roba che fino all’estate precedente i ragazzini erano sacri e ogni desiderio veniva esaudito prima ancora d’essere espresso! Un’ipnosi collettiva sembrava averle contagiate tutte.
Era successo che un giorno era arrivata una persona che andava in giro per i paesi piccoli piccoli dove c’erano donne che sapevano lavorare bene la lana e aveva fatto loro una proposta: noi vi diamo la lana e il disegno da eseguire. Voi tanto non avete niente da fare e potete passare il tempo chiacchierando e lavorando a maglia. Poi appena finite un maglione noi ve lo veniamo a prendere e per ogni maglione vi diamo diecimila lire.
Ehi, capiamoci, io vi sto parlando dell’inizio degli anni Ottanta, quando il mio vestito indiano costava duemila lire e i miei maglioni invernali quattromila ma forse anche meno. Certo, non era roba da boutique, quella sarebbe piaciuta a mia madre, ma era comunque abbigliamento e io con diecimila lire di maglioni ce ne avrei comprati due e mezzo. Lo credo che quelle signore erano tutte felici! Sì vabbè, ma se a loro davano diecimila lire, chi li comprava li avrebbe pagati almeno venti! Beh certo, ma non facevano male a nessuno e loro si ritrovavano ad avere un reddito personale senza cambiare vita e senza dipendere dai mariti. Una vera emozione, e un’emozione che andava oltre il denaro. Era l’idea di un lavoro proprio, neanche sentito come lavoro ma come riconoscimento della loro abilità, e pure retribuito!
Avete presente quello che oggi, con la mania anglofila che rende tutto moderno, viene chiamato smart working? Che poi sarebbe lavoro a domicilio e tanto smart non è che lo sia, però fa molto chic definirlo così e grazie al Covid-19 viene lanciato come lavoro del futuro, l’avete presente? Beh, non è così moderno, lo facevano già le signore di un paesino piccolo piccolo incastrato tra l’Umbria e le Marche 40 anni fa!
Io all’epoca non m’intendevo di griffe e quando mi fecero il nome della ditta per cui facevano i maglioni, quel nome non mi disse niente. Conoscevo solo Pierre Cardin perché mi avevano regalato una tenda griffata spiegandomi che era un oggetto di valore per via di quella firmetta che appariva lungo il bordo. Infatti la regalai a mia sorella facendola felice.
Insomma per me Missoni, Armani, Versace non erano che dei cognomi italiani qualunque.
Poi l’estate passò e, come succede ogni anno, con o senza crisi, guerre, terremoti o epidemie arrivò l’autunno e, passando davanti a un negozio cosiddetto elegante nel centro di Roma, che ti vedo? Un maglione esatto, identico a quello che aveva realizzato la signora Attilia. Accanto al maglione campeggiavano due cose a mo’ di presentazione: la scritta “fatto a mano” e io lo sapevo che era vero, e la griffe. Missoni? Armani? Non ricordo, il nome è passato in secondo piano quando ho visto il prezzo. Come faceva un maglione a costare 160mila lire? Era un decimo del mio stipendio che era uno stipendio altissimo allora. Chi poteva comprarsi un maglione da 160 mila lire? Io sì, certo, ma non lo avrei mai fatto. Sarebbe stato uno schiaffo in faccia alla povertà.
Forse oggi non si comprende l’entità dello scandalo perché l’euro ha modificato la percezione delle grandezze monetarie in lire. Mi pareva assurdo, altro che plusvalore! Manco Marx avrebbe pensato a un livello tale di furto operato sulla forza lavoro. Andai a trovare mia madre, dovevo dirglielo. Ovviamente fu stupita perché da quando ero uscita di casa, a poco più di 21 anni, mi vedeva raramente. Mia madre cucinava molto bene e se voleva dirti benvenuto ti preparava al volo qualcosa di buono, in caso contrario ti faceva un caffè. Era un codice preciso, lo faceva anche con i nostri amici e fidanzati e noi lo sapevamo e ci facevamo le scommesse.
«Beh, qual buon vento ti porta? Ti fermi a cena, sì?» Questo il suo benvenuto perciò potevo prendere subito l’argomento maglione. Ero sul piede di guerra e le dissi quel che avevo visto. La sua risposta fu una parolaccia pesantuccia all’indirizzo della firma di grido e poi mi raccontò che aveva avuto alcune discussioni con le signore del paese il giorno in cui una di loro aveva detto: «noi non siamo come quelle operaie che pretendono tutto dal padrone e infabbrica organizzano gli scioperi, quelle sarebbero tutte da licenziare e i padroni farebbero bene a dare il lavoro solo a quelle come noi».
Allora mia madre aveva riflettuto e aveva detto: «sì, ma noi stiamo togliendo il lavoro a quelle operaie. A noi piace lavorare a maglia e per noi è un passatempo retribuito, ma il padrone non ci paga la malattia se ci ammaliamo, non ci paga le ferie, non ci mette i contributi, insomma facciamo concorrenza alle operaie, e poi chissà a quanto se li vende sti maglioni, magari pure a trentamila lire!».
Le signore del paese avevano risposto che a loro andava bene così e allora mia madre, che in gioventù aveva lavorato presso una casa editrice e si ricordava che lavorare secondo le regole di un contratto collettivo di lavoro e lavorare in nero erano cose profondamente diverse, decise che non avrebbe più fatto maglioni neanche se glieli avessero pagati il triplo, primo perché quello era sfruttamento e secondo – e forse più importante – perché indeboliva la forza contrattuale delle operaie delle maglierie, cioè, insomma, era come se facesse la crumira e lei queste cose non le faceva.
Quando le dissi che il maglione fatto da Attilia veniva venduto a 160 mila lire, dopo l’imprecazione, fece un breve discorso che mi è tornato alla mente quando in televisione ho sentito proporre il lavoro a domicilio, edulcorato con la definizione molto british di smart working, come nuova forma di lavoro post-epidemia per evitare gli assembramenti. Quanti danni collaterali sta facendo questo Covid19! lo smart working viene presentato come lavoro libero, moderno, che lascia autonomia al/la lavoratore/trice, e dietro queste belle caratteristiche sfugge il fatto che ognuno resta isolato dai suoi compagni, il rapporto lavorativo non è mediato da un contratto collettivo e ciascuno resta alla completa mercé del suo datore di lavoro che diventa il suo padrone. Allora mi sono tornate alla mente le parole di mia madre e le riporto come le ricordo, in romanesco: «si uno nun se rende conto che è solo co l’unione che se fermeno le prepotenze diventa nemico dell’altri lavoratori. Ma che je vai a spiegà a quelle! Se le so comprate co diecimila lire e nun je frega gnente che stanno a danneggià chissà quante pore cristiane che magari verranno pure licenziate. Io nun ce sto e basta».
Il suo maglione non lo vendette, e siccome mio fratello è sempre stato il suo preferito, lo ha completato per il figlio. Chissà se mio fratello se lo ricorda ancora che quarant’anni fa indossava, ma senza la griffe, un maglione forse Missoni, forse Armani solo perché sua madre ce l’aveva chiaro che lo smart working è una mannaia sulla testa di lavoratrici e lavoratori, che vengono privati dei loro diritti in cambio di un pugno di monetine. E chissà se gli italiani, e le italiane, passato il terrore della morte, lo capiranno anche loro!

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