PER LA NOSTRA SALUTE NON BASTA IL VACCINO CONTRO IL COVID-19

racconta Boubacar Badji, 33 anni, il quarto di cinque figli maschi e tassista di moto nella città meridionale di Ziguinchor –. Voglio partire per la Francia o la Germania, non ho paura del Covid in Europa. Ho ritardato la partenza perché non ho potuto lavorare per due mesi, ma con il tempo vorrei risparmiare almeno 600mila franchi

di Matteo Fraschini Koffi

DAKAR, Senegal – “L’Africa deve prepararsi a un’ecatombe”. Fu questo l’allarme lanciato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) lo scorso aprile, all’inizio della pandemia di coronavirus che si stava lentamente propagando attraverso il continente. Una predizione che nessuno ha dimenticato. Tale avvertimento prevedeva infatti la catastrofe. Poche parole per descrivere ciò che, fortunatamente, non è mai avvenuto. Una semplice frase che persino chi non era convinto della sua veridicità si sentiva comunque costretto a menzionarla nelle varie conferenze o a scriverla negli articoli e rapporti sul Covid-19 in Africa. Eppure, rispetto al resto del mondo, il coronavirus mieteva poche vittime e registrava un numero di casi molto basso. Ci sono voluti circa sei mesi affinché l’Oms ritrattasse. Nascondendo un certo imbarazzo l’organizzazione ha pure espresso una sorta di scusa. I sistemi sanitari africani, nonostante le numerose difficoltà di cui sono caratterizzati, hanno infatti resistito.

Poco dopo l’inizio della crisi, 88 intellettuali africani, tra cui il nigeriano Wole Soynka e il senegalese Cheikh Amidou Kane, hanno però lanciato un appello invitando le autorità del continente nero a “ripensare la salute come un bene pubblico essenziale”. Nonostante vari progressi dal periodo dell’indipendenza, le falle nel sistema sanitario africano sono ancora numerose e importanti: “Mancanza di investimenti nelle strutture pubbliche e nella ricerca di base – affermava l’appello –, insicurezza alimentare, spreco di fondi governativi, e priorità delle infrastrutture stradali, energetiche e aeroportuali a scapito del benessere umano”. A questo elenco si aggiungono i salari troppo bassi per gli operatori sanitari che continuano a emigrare all’estero, la penuria di materiale medico, l’impossibilità di effettuare gran parte delle operazioni chirurgiche maggiormente delicate, e il mancato sostegno dimostrato dai governi agli studenti di medicina che regolarmente prendono parte a proteste di piazza. Infine, la cooperazione internazionale spesso rappresenta l’unico rimedio in contesti di emergenza sanitaria che lo Stato evita di affrontare. Il peso di tali dinamiche grava da decenni sui pazienti più poveri che spesso muoiono davanti ai cancelli degli ospedali poiché non sanno come pagare le proprie cure mediche. “Dei 20 Paesi con i maggiori tassi di mortalità materna nel mondo – dichiara l’Oms –, 19 si trovano in Africa”. La pandemia di coronavirus ha quindi da una parte esacerbato la fragile realtà sanitaria africana e dall’altra, paradossalmente, ne ha mostrato i lati più solidi in un periodo in cui i contagi di Covid-19 sono radicalmente diminuiti in gran parte degli Stati e i vaccini stanno lentamente arrivando.

Sebbene ora si cerchi il modo per affrontare le varianti del virus, gli africani, per ora, si considerano relativamente risparmiati dal coronavirus. Le ragioni sono varie secondo gli esperti locali e stranieri che vivono da anni Nel continente: dalla giovane età mediana della popolazione (19,7 anni) al clima generalmente più caldo, dall’imposizione rapida delle restrizioni alla resistenza del sistema immunitario formatosi probabilmente grazie a malattie come la malaria. Uno dei motivi principali sembra sia però l’esperienza acquisita dai resilienti sistemi sanitari africani. Sebbene i dati più recenti parlino di un dottore ogni 5mila abitanti, medici, infermieri e funzionari nel settore della salute affrontano decine di epidemie ogni anno.

PAESI: “Molte persone avevano previsto la catastrofe in Africa”, spiega Amadou Sall, direttore dell’Istituto Pasteur nella capitale senegalese, Dakar. “Dobbiamo sempre essere prudenti nelle nostre predizioni ma siamo riusciti a prepararci alla crisi e abbiamo reagito piuttosto bene a questa pandemia. La fragilità di gran parte dei nostri sistemi sanitari – continua Sall – è stata compensata dalla nostra esperienza nell’affrontare circa 100 epidemie che scoppiano ogni anno sul continente”. Dall’ebola alla meningite, dal colera alla febbre di Lassa, i sistemi di salute africani sono in continuo esercizio e sviluppo. Da molti anni l’Africa ha infatti attivato un certo numero di programmi in grado di migliorare le capacità dei propri operatori sanitari nel gestire le epidemie. Dall’inizio della crisi, il Senegal ha registrato meno di 38mila contagi, poco più di 33mila guarigioni e circa mille morti. L’Istituto Pasteur, assieme ad alcuni partner stranieri, è stato anche tra i primi Paesi al mondo ad annunciare la produzione di test rapidi. Dopo una fase pilota organizzata nei vari centri sanitari di Dakar, le autorità hanno decentralizzato tale intervento garantendo l’accesso a questo tipo di tamponi anche nelle aree più lontane. I test rapidi costano circa un dollaro e hanno l’obiettivo di essere complementari agli altri test per individuare il coronavirus. Mirano quindi a fornire una visione maggiormente complessiva dell’impatto che la pandemia sta avendo sulla popolazione.

SUDAFRICA: Il Paese africano trovatosi nella situazione peggiore è stato il Sudafrica con un milione e mezzo di casi e 51mila decessi. Il picco è stato registrato tra dicembre e gennaio durante la seconda ondata. La “nazione dell’arcobaleno” aveva infatti raggiunto i 20mila casi al giorno ma per meno di una settimana. Il sistema sanitario sudafricano ha comunque subito un grave colpo. Con 1,75 medici per ogni mille pazienti, i sudafricani hanno probabilmente sofferto di più di ogni altra popolazione africana la pandemia di coronavirus. I circa 7mila letti adibiti alla terapia intensiva erano tutti occupati con numerosi pazienti costretti a ricevere l’ossigeno persino nelle sale d’attesa. Per questi motivi le autorità avevano imposto il coprifuoco notturno, il divieto di muoversi e di vendere l’alcol. Essendo però uno degli Stati al mondo maggiormente colpiti dal virus Hiv/Aids, i sudafricani non si sono fatti intimidire. “Sconfiggere un virus è possibile” era il motto tra gli abitanti di Eshowe, cittadina nota per aver ridotto al minimo l’Hiv/Aids tra i suoi residenti grazie a un lavoro collettivo durato anni. Ora lo stesso modello potrebbe essere riproposto con il Covid-19. Era stata necessaria la partecipazione di tutti. Dalle piccole cliniche rurali, ai grandi ospedali provinciali, dai leader e guaritori tradizionali agli insegnanti delle scuole. Mentre i cittadini lavoravano su aspetti come la sensibilizzazione nei quartieri, le autorità si erano impegnate ad “avvicinare i servizi medici alle persone”, formando un reticolato di centri sanitari, modesti ma efficaci. Una strategia che è stata lanciata in varie località del Paese per sconfiggere l’epidemia.

GAMBIA: Dall’altra parte del continente, in Gambia, sono stati registrati nell’ultimo anno 5mila casi con 160 decessi. Cifre probabilmente ridotte rispetto alla reale estensione della pandemia, ma che comunque non hanno permesso una saturazione dei sistemi sanitari locali. “Il nostro centro di ricerca, dotato anche di servizi clinici, ha normalmente 42 letti”, afferma Umberto d’Alessandro, direttore da oltre dieci anni dell’istituto Medical research council (Mrc) legato alla London school of hygiene and tropical medicine. “Durante la pandemia avevamo aggiunto 30 letti adibiti solo alle cure di pazienti affetti dal Covid-19, abbiamo riorganizzato il flusso dei malati per limitare i rischi di infezione per il nostro personale e il governo gambiano ha allestito due centri per affrontare al meglio la pandemia. Tuttavia – continua a spiegare d’Alessandro –, abbiamo riscontrato pochissimi casi gravi che necessitassero di essere trasferiti nelle unità di terapia intensiva”.

TOGO: In Togo dove il settore sanitario sta lentamente migliorando grazie al lavoro delle autorità e di un gruppo di esperti locali e stranieri, la pandemia non ha prodotto niente che la popolazione non avesse in parte già visto in passato. Nonostante i numerosi problemi che caratterizzano tanto le infrastrutture quanto il personale che opera negli ospedali, il Covid-19 sta passando senza aver provocato particolari crisi. “Ci è voluto un po’ di tempo ma ora le persone hanno preso coscienza della pandemia e stanno molto attente al loro comportamento”, afferma Mawko Klevo, medico togolese presso l’ospedale distrettuale di Tabligbo. “Devo ammettere che all’inizio tale pandemia ci ha sorpreso tutti. Poco dopo, però – racconta Klevo –, le autorità hanno adottato delle misure per evitare la crisi riscontrata in Occidente. Qui ci siamo concentrati sulla chiusura quasi istantanea delle frontiere aeree e terrestri, oltre ad aver imposto restrizioni come l’isolamento e il coprifuoco. Appena si registravano dei contagi in una regione, la popolazione veniva subito isolata. Il governo, nonostante i pochi mezzi a disposizione, ha fatto l’essenziale per gestire la crisi in tutto il territorio. C’è stata inoltre un’intensa sensibilizzazione e una chiara comunicazione per offrire informazioni generali o cure specifiche ai togolesi”.

Il Togo ha avuto un percorso diverso da molti altri Paesi africani. I casi di Covdi-19 stanno infatti lentamente aumentando senza aver mai raggiunto un vero picco. Sebbene tale processo possa destare delle preoccupazioni, il piccolo Paese incastonato nel Golfo di Guinea ha registrato solo 8,500 contagiati e un centinaio di morti fino ad oggi.

CIFRE: Quando il continente africano aveva oltrepassato la soglia di un milione di contagi all’inizio dello scorso agosto, il Centro africano per il controllo e la prevenzione delle malattie infettive (Cdc-Africa) dichiarava che tali cifre erano comunque il frutto di un’analisi molto parziale. La metà dei contagiati era stata registrata in Sudafrica dove, malgrado la crisi sanitaria, tali numeri sembravano davvero rispecchiare l’impatto del coronavirus nel Paese. Nel resto dell’Africa, però, la situazione era differente. “L’Africa occidentale conta 137 mila malati, di cui 45 mila in Nigeria – affermavano in quel periodo i dati governativi –, mentre l’Africa orientale ha 86 mila contagi e la regione centrale ne ha 50 mila”. Molti Paesi, soprattutto quelli in guerra mancavano, e mancano tuttora, di materiale e personale medico in grado di analizzare al meglio il contesto provocato dalla pandemia. In Sud Sudan il sistema sanitario è gestito in gran parte da organizzazioni non governative e i centri missionari. In Centrafrica, dove i letti per la terapia intensiva pare siano al massimo cinque, la situazione è molto simile. In Somalia, Repubblica democratica del Congo e Burkina Faso, anche a causa dell’ondata jihadista in varie parti del Paese, è sempre stato difficile ottenere informazioni attendibili.

L’Oms aveva infatti esercitato pressione affinché la comunità internazionale intervenisse con aiuti di vario genere per assistere il continente africano ad avere un quadro più veritiero rispetto alle cifre rilevate. “In numerosi Stati abbiamo notato negli ultimi giorni una riduzione dei casi quotidiani del 20 per cento – recitava qualche mese fa un comunicato dell’Oms –. Siamo sospettosi di tale tendenza poiché sappiamo che la mancanza di materiale per fare i test è una sfida costante in molti Paesi del contintente africano”.

MINACCE E ARRESTI: L’organo sanitario dell’Onu aveva inoltre espresso una forte preoccupazione per la Tanzania e il Burundi. Da mesi le autorità di entrambi i Paesi stavano celando i numeri reali della crisi e conducevano una campagna di intimidazione contro chiunque parlasse pubblicamente della pandemia. Poco prima che morisse apparentemente di coronavirus il presidente tanzaniano, John Magufuli, diverse persone erano state arrestate o minacciate dalle autorità che le accusavano di “spargere false notizie”. Dopo oltre due settimane di assenza dalla scena pubblica, Magufuli, negazionista del Covid-19 per eccellenza, è deceduto. La Tanzania, un Paese di circa 60 milioni di abitanti, avrebbe registrato fino ad ora solo 509 casi e 21 morti in totale. Mentre il vicino Kenya, con 52 milioni di cittadini, ha registrato 118mila contagi e quasi 2mila morti.

RIMEDI TRADIZIONALI: Ci sono invece Stati come il Madagascar dove oltre il 60 per cento della popolazione risiede ad almeno cinque chilometri dalla più vicina struttura sanitaria. Gran parte della popolazione vive infatti in aree rurali e remote difficili da raggiungere a causa della mancanza di strade percorribili o meccanismi di comunicazione. Inoltre, come in vari Paesi africani, il personale sanitario è distribuito in modo relativmente centralizzato, mentre farmaci e forniture mediche tendono a finire velocemente o non sono neanche disponibili in alcune aree. In questo contesto le autorità avevano quindi permesso l’uso di terapie “tradizionali” per prevenire i contagi ma giudicate assai pericolose dagli esperti. “Stiamo iniettando la popolazione con due tipi di farmaci – aveva dichiarato l’anno scorso il presidente malgascio, Andry Rajoelina, criticato in passato per aver promosso una presunta tisana in grado di eliminare le possibilità di contagio del virus –. Per ora non possiamo comunque rivelare la natura di questi medicinali”. Secondo alcune fonti, i due farmaci sarebbero a base di artesunato, utilizzato contro la malaria, e di vitamina C. Nonostante un numero inizialmente basso di contagi e l’assenza di decessi per alcuni mesi, a luglio il Madagascar aveva subito un’impennata di casi raggiungendo gli oltre 12mila malati e 135 morti. Oggi il Paese registra 30mila contagi e 338 decessi.

MIGRAZIONE: La pandemia ha messo senza dubbio in ginocchio le economie di diversi Stati africani. Le restrizioni avevano provocato la chiusura di attività, il licenziamento del personale e la sospensione del settore dei trasporti dovuto soprattutto a coprifuochi e chiusura delle frontiere sia interne tra regioni che esterne tra Stati. Proprio per questo anche il fenomeno della migrazione interna e esterna all’Africa ha subito un duro colpo. Tale pausa, durata diversi mesi, è però finita. Gli africani hanno ricominciato a muoversi all’interno dei loro Paesi, attraverso gli Stati e persino verso l’Europa. Le difficoltà rimangono ma non intimidiscono. “La pandemia e le misure restrittive adottate in Senegal mi hanno provocato molti danni, spesso mi trovavo in strada con gli amici senza fare niente per tutto il giorno e mangiando solo la sera – racconta Boubacar Badji, 33 anni, il quarto di cinque figli maschi e tassista di moto nella città meridionale di Ziguinchor –. Voglio partire per la Francia o la Germania, non ho paura del Covid in Europa. Ho ritardato la partenza perché non ho potuto lavorare per due mesi, ma con il tempo vorrei risparmiare almeno 600mila franchi CFA (circa mille euro) per partire con la barca verso la Spagna e poi continuare”. Dallo scorso ottobre sono stati centinaia i migranti dell’Africa occidentale morti nelle imbarcazioni che lasciavano le coste del Senegal per arrivare alle Isole Canarie. Le autorità hanno infatti trasferito le risorse per limitare l’emigrazione clandestina dall’Africa verso l’Europa nei programmi che servivano a combattere la pandemia in attesa dell’arrivo dei vaccini.

VACCINI: La Fondazione Bill e Melinda Gates, grandi finanziatori dell’Oms, è stata la più importante promotrice dell’iniziativa Covax, il cui obiettivo è permettere l’accesso ai vaccini ai Paesi in via di sviluppo. In Africa si punta a fornire 600 milioni di dosi che coprirebbero circa il 20 per cento della popolazione. “Finora abbiamo fornito più di 16 milioni di dosi di vaccino AstraZeneca/Oxford a 27 paesi del continente africano – afferma un recente comunicato del programma Covax approdato in Africa a febbraio –. Temiamo che i Paesi che hanno ricevuto le spedizioni iniziali potrebbero comunque presto esaurire le dosi”. Il Ghana, per esempio, ha ricevuto 600mila dosi tramite Covax e finora ne ha utilizzate più di 420mila. Il Ruanda ne ha ricevute poco meno di 400mila e ha ricevuto vaccini dalla Pfizer. Molti Stati africani hanno accolto i vaccini anche da altri Paesi come Russia, Cina, Cuba e India. Inizialmente sono stati vaccinati i funzionari governativi, gli operatori sanitari, e le persone più a rischio come gli ultra sessantenni. Mentre in Ghana è stata denunciata la mancanza di un coordinamento appropriato per la distribuzione dei vaccini, in altri Paesi le campagne per la vaccinazione procedono in modo relativamente regolare e rapido. Le nuove varianti del virus riscontrate soprattutto in Nigeria, Sudafrica e nei Paesi limitrofi a quest’ultimo destano comunque preoccupazione. Come nel resto del mondo, infatti, anche nel continente nero la lotta contro il tempo continua.

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